Dino Campana (1885-1932) e il suo pellegrinaggio al Santuario della Verna (Settembre 1910), da Marradi (FI) suo luogo natale. La Verna è luogo cristiano per eccellenza, ma anche un santuario della natura, lui ci va a piedi, da solo, attraversando luoghi che poi descriverà nel diario dei "Canti Orfici", riportato integralmente nel seguito.
La Verna (Diario)
15 Settembre (per la strada di Campigno)
Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume. . . . . . . . . .
Castagno, 17 Settembre
La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia à reso cupo il grigio delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute. Il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo.
Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto.
Sulla Falterona (Giogo)
La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) Campigna, foresta della Falterona (Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti.) Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvagge dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.
Stia, 20 Settembre
Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua:
Comme deux ennemis rompus
Que leur haine ne soutient plus
Et qui laissent tomber leurs armes!
21 Settembre (presso la Verna)
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa. Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. "In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole." Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.
Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui. Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.
22 Settembre (La Verna)
"Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 20 Agosto 189..." Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato!
Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo: . . . . . . . . .
stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penembra della cappella. Acquistano allora quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco!
Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode né il frusciare della massa oscura né il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore.
Il ritorno
SALGO (nello spazio, fuori del tempo)
L’acqua il vento
La sanità delle prime cose Il lavoro umano sull’elemento
Liquido - la natura che conduce
Strati di rocce su strati - il vento
Che scherza nella valle - ed ombra del vento
La nuvola - il lontano ammonimento
Del fiume nella valle E la rovina del contrafforte - la frana
La vittoria dell’elemento - il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento.
La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche.
L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su se stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco. Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.
Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica, della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pianto: come è dolce quando tu assistevi alla scena di dolore della madre, della madre che aveva morto l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia: e già dimentica dell’amor del poeta.
Monte Filetto, 25 Settembre
Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi.
Presso Campigno (26 Settembre)
Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui veramente la regina del paesaggio.
Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi e colline.
Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro crepuscolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra è il canto dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’elemento nello splendore nero degli occhi delle vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna... Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra...
Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro.
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna.
L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora.
Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba.
Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra...
Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.
Marradi (Antica volta. Specchio velato)
Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi!
Presso Marradi (ottobre)
Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia stanza che affronta i venti: e la... e il figlio, povero uccellino dai tratti dolci e dall’anima indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta, e il vento che batte alla finestra dall’orizzonte annuvolato, i monti lontani ed alti, il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve... La padrona zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale. Fine del pellegrinaggio.
Back to Top